La storia della nostra provincia
Il terremoto
Dopo il colera del 1854 e il terremoto del 1894, con danni e vittime, il destino della martoriata collettività messinese fu tragicamente segnato alle 5 e 20 del 28 dicembre 1908.
La notte era serena, il mare calmo, il cielo decembrino un cristallo nero, terso e trapunto di stelle; sulle due rive spiravano aliti di un pigro venticello freddo.
Quattro ore prima due leggere scosse sismiche, una sorta di inascoltato preavviso per le popolazioni abituate ai fremiti del sottosuolo.
"Partimmo da Messina all'ora solita, poco dopo le cinque del mattino" raccontò il comandante della nave traghetto "Calabria", signor Ermanno Falkenburg "con trecento persone a bordo. L'alba ancora lontana e mai cielo più scintillante di stelle vidi sullo Stretto. Dal ponte di comando dirigevo la manovra quando ad un tratto un fragore cupo, prolungato, che sembrava venire dalle profondità del mare mi inchioda al mio posto.
Poi, prima che io avessi potuto fermare l'attenzione sul fenomeno insolito, sento la nave colare a picco, con rapidità spaventosa, mentre un urlo di terrore si levava dai passeggeri. Distinguo nettamente" - racconta sempre il comandante - "illuminate dai bagliori dei fari di bordo, due muraglie d'acqua scavare un baratro in cui il mio 'Calabria' s'inabissa; poi con la stessa fulminea rapidità si risale alla superficie.
Lunghissime ondulazioni imprimono al ferry boat un impressionante movimento di beccheggio. Ed ecco spegnersi successivamente sulle due rive i lumi di Messina, Villa San Giovanni, Reggio... Invano scruto le tenebre con il cannocchiale.
Nel cielo intanto dalle due rive s'innalzano lentamente, sino a congiungersi, due nuvole nere come l'inchiostro e dopo pochi minuti comincia a venire giù una pioggia sottilissima di sabbia che acceca, che soffoca".
A questa testimonianza ne aggiungiamo un'altra, quella del noto scrittore e saggista siciliano Giuseppe Antonio Borgese, il quale arrivò all'alba del giorno dopo a bordo della nave "Colombo".
Scrisse Borgese: "Il mare formicolava di barche sperdute: la riva era deserta. Vedemmo una lunga e magra lista di popolo nero contornare la città caduta, come un fregio di lutto contorna una pagina funebre. La città era bianca di un biancore cadaveroso; si arrossò sotto i nostri occhi di una luce che non veniva dal cielo e partiva dalle viscere convulse delle rovine". Allo sfacelo del sisma e del maremoto infatti si aggiunse a completare la catastrofe l'incendio.
In trenta secondi sulle due rive dello Stretto furono morte e povertà.
L'ipocentro del terremoto fu localizzato in mare nelle strutture dello Stretto e provocò un potente maremoto che interessò le coste siciliane e calabresi. La profondità del punto di "esplosione" delle energie sismiche fu individuata tra i 10-20 Km; raggiunse l'undicesimo grado, cioè l'ultimo, della scala Mercalli.
Durante i tre giorni successivi, oltre sessanta repliche di modesta intensità sismica furono la "coda" di quell'apocalisse; nei due anni seguenti, nell'area siculo-calabra si registrarono duemila scosse di assestamento, non superiori al quarto grado della scala Mercalli.
Il bilancio tragico si condensa in queste cifre: 70.000 morti, su una popolazione di 170.000 abitanti; nel centro urbano si contarono 60.325 morti. Il 90% degli edifici fu distrutto e solo il 6% risultò ancora abitabile.
I primi soccorsi arrivarono con le navi della flotta russa provenienti da Augusta; quindi la gara di solidarietà coinvolse tutte le nazioni contemporaneamente all'intervento della marina e dell'esercito italiani. Nonostante l'intenzione serpeggiante di abbandonare tutto, di cominciare a ricostruire il tessuto abitativo altrove, di lasciare il luogo dove mare, fuoco e forza sismica avevano spianato tutto, i messinesi restarono e ricominciarono da capo.
Ne difesero pure il diritto alle istituzioni culturali, come per esmpio l'antica università che parecchi intellettuali, anche meridionali, volevano abolire, trasferendola presso l'università di Napoli e di Bari.
Ma della lezione di civismo data a tutti dai messinesi ci sembra che le parole di Giovanni Verga, autore di immortali romanzi, siano le più significative: "Nello sgombero dell'ora tristissima e dell'immane disastro essi, privi di tutto ma fermi sulle rovine della loro sventurata città, fermi nell'amore del natio luogo, nel coraggio, nel proposito e nella fede che essa risorga, sono un grande conforto, un grande orgoglio per i loro fratelli d'ogni terra d' Italia...".
Preistoria
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