Consenso informato
In un passato non ancora lontano la prestazione della persona interessata all’atto medico non assumeva rilevanza giuridica.
L’alta finalità sociale, comunemente riconosciuta all’attività medica, giustificava tutti quei comportamenti mente invasivi o violenti che astrattamente integravano fattispecie di reato sanzionate penalmente.
Era poi impensabile che colui che spontaneamente si sottoponeva a cure mediche non prestasse il proprio trattamento sanitario prescrittogli.
Analogamente la preventiva informazione in ordine alla effettiva gravità della malattia, nonché alle conseguenze, ai rischi ed alle probabilità di successo dell’attività espletando era poi rimessa alla più ampia discrezionalità del medico che talora si limitava a dispensare scarne ed insoddisfacenti informazioni al paziente – ancorché in ansia per il proprio stato di salute – e, dall’altro, pretendeva cieca ed incondizionata fiducia nelle cure approntate.
Solo in epoca recente, pur se in un contesto stanzialmente immutato, con il recente recepimento della cultura giuridica italiana di quell’informed consent, elaborato dalla giurisprudenza statunitense a partire dal 1914, rapporto tra medico e paziente risulta profondamente modificato e la classe medica ha in gran parte assunto nei confronti della persona che si sottopone ad un qualsiasi trattamento diagnostico o terapeutico una maggiore disponibilità a chiarire i limiti convenzionali entro cui viene resa la prestazione richiesta.
Si può ormai ritenere definitivamente tramontata la stagione del “paternalismo medico” ed è nel consenso informato, ossia nella volontà liberamente espressa dall’individuo capace, cosciente e adeguatamente informato, che risiede la legittimità ed il fondamento dell’attività medica, sia che si tratti di attività chirurgica (tipicamente lesiva), sia che si tratti di attività meramente invasiva (diagnostica e terapeutica).
Ultimo aggiornamento
22 Febbraio 2024, 18:02