Il segreto professionale

È ancora lecito oggigiorno, in un’analisi che non voglia indulgere alla facile retorica e che intenda invece prendere consapevolmente atto del radicale mutamento – organizzativo, strutturale e, in un certo senso, anche e soprattutto culturale – dell’attuale realtà sanitaria rispetto a solo pochi lustri or sono, parlare del segreto professionale nei termini, come si sottolineava in un importante contributo di oltre quaranta anni fa, di “pietra angolare dell’esercizio professionale” e di prerogativa della professione “che più ha sollecitato il senso di responsabilità etica e morale del medico”.

E, all’estremo opposto, si può invece affermare che le esigenze pubbliche hanno ormai finito con il corrodere le basi e il significato stesso del rispetto della riservatezza nell’ambito del rapporto privatistico medico-paziente (rapporto della cui sopravvivenza, proprio per questo motivo, molto si dubita), fino a fare del tema in questione, come è stato provocatoriamente scritto, un “concetto decrepito “.

Posti in questi termini, i suddetti interrogativi (che, sia detto per inciso, accompagnano da sempre – con toni più o meno preoccupati – l’argomento in discussione, il che se non altro testimonia di una sua pervicace vitalità) indubbiamente radicalizzano il problema in questione, ma vogliono sottolinearne l’intrinseca antinomia che, superando i confini della riservatezza, attraversa e caratterizza l’intera riflessione deontologica e che ha per oggetto il rapporto tra diritti del singolo ed esigenze della collettività, il cui bilanciamento è diventato, con il passare degli anni, sempre più complesso.

Tale antinomia tra origine da una serie di ragioni che proprio in riferimento alla questione in commento trovano una puntualizzazione che non sembra azzardato definire paradigmatica e che possono essere schematizzate (accettando consapevolmente il rischio che la ristrettezza dello spazio destinato, nell’economia del presente contributo, a uno dei temi più fecondi dell’intera discussione sull’attuale idea di professione possa tradursi in una eccessiva semplificazione) nei termini seguenti.

In primo luogo vi è la progressiva scomparsa della connotazione privatistica del rapporto medico-paziente, che si è dapprima disperso in una serie di rapporti interpersonali e si è quindi quasi completamente spersonalizzato, venendo sostituito da un rapporto tra struttura sanitaria e utente della medesima, alla cui configurazione non sono estranee istanze organizzative, burocratiche e soprattutto economiche molto distanti dalla tradizione deontologica di matrice ippocratica.

Vi è, in secondo luogo, una diversa percezione sociale della malattia, che ha perso, almeno in parte, la connotazione negativa, quasi di disvalore che sembrava accompagnarla, per cui la persona malata tende a configurarsi più come portatore di diritti che come soggetto bisognoso di cure, con la conseguenza che il ruolo del medico corre il rischio di essere relegato a quello di esecutore tecnico dell’altrui volontà.

In terzo e ultimo luogo, l’interpretazione improntata al rigorismo dogmatico proprio della tradizione ippocratica, in cui i principi dell’etica medica godevano di una sorta di autoreferenzialità, ha lasciato il campo a un’impostazione più duttile, volta a conciliare, in un contesto pluralistico, istanze divergenti, attraverso l’adozione di regole minime e di per se stesse prive di valore assoluto, che disegnano uno scenario in cui l’agire secondo scienza e coscienza è sempre meno regola aurea nella definizione del corretto comportamento del medico e sempre più soltanto uno dei tanti valori in gioco nel delicato intreccio di rapporti tra professionisti sanitari, cittadini e società.

Ritornando al tema della riservatezza, occorre allora riconoscere come un dato di fatto che la regola del silenzio non costituisce più un principio assoluto, ma piuttosto un principio la cui validità potrebbe definirsi, mutuando il termine dalla riflessione bioetica, prima facie, nel senso che la sua cogenza è assoluta solo in quelle situazioni in cui esso non confligge con altri princìpi,dovendosi ammettere invece, in caso di conflitto, eccezioni.
In altre parole, quando il medico si trova, come ormai accade sempre più spesso, a dover fronteggiare situazioni in cui l’ossequio del principio di segretezza si pone in contrasto con gli interessi, parimenti rilevanti, di altri soggetti o della collettività, l’impegno alla riservatezza sembra configurarsi sempre meno come obbligo e sempre più come opzione.

Occorre del pari riconoscere che la già richiamata necessità di “conciliare le esigenze del segreto con le esigenze della vita moderna che sono portatrici di interessi prevalentemente di natura pubblica” ha portato, forzatamente, anche a una delimitazione del contenuto del segreto professionale, il cui orizzonte, una volta così ampio da poter essere definito nei termini di “visa audita atque intellecta”, sembra ora restringersi e ridisegnarsi alla luce di molteplici fattori.

Segreto deve allora essere ritenuto “ciò che non è comunemente noto, che fa ragionevolmente parte dell’intimità dell’individuo, del suo modo di vivere e del suo modo di essere non ovviamente palesi, non destinati comunque all’altrui comune conoscenza”, di cui il sanitario abbia nozione a motivo della sua attività professionale (secondo un’analogia, che sembra pertinente nell’approccio definitorio alla nozione di segreto, con la nozione di dati sensibili di cui all’art.22 della Legge n.675/1996).

È facile del resto scorgere traccia del diverso significato che il segreto professionale è andato assumendo nel corso degli ultimi anni anche nell’evoluzione della normativa deontologica, che testimonia eloquentemente della mutata sensibilità, sia professionale sia sociale, nei confronti del tema della riservatezza.

Il Codice di Deontologia Medica del 1989, infatti, rifacendosi a una nozione di segreto professionale di matrice chiaramente penalistica, di fatto ammetteva come deroghe all’assolutezza del principio due sole situazioni: l’ubbidienza a un obbligo di legge e l’autorizzazione dell’interessato.

La versione del 1995 risente, forse in modo eccessivamente emotivo, del contingente contesto culturale e sociale e segnatamente della questione, sulla quale si registrava in quegli anni un dibattito particolarmente acceso, della cosiddetta partner notification relativamente alla sieropositività per l’infezione da HIV (infezione alla quale, sia detto per inciso, occorre riconoscere il merito di aver rivitalizzato, parafrasando il titolo di un noto contributo della letteratura bioetica, un tema – quello appunto della riservatezza professionale – che fino a quel momento sembrava languire nelle secche di un dibattito senza sbocchi).

Nel tentativo di conciliare istanze così palesemente in conflitto – diritto alla riservatezza della persona assistita da un lato; e dovere di protezione nei confronti del cosiddetto terzo innocente dall’altro – il codice del 1995 optava per una formulazione per così dire elastica (e per certi versi anche ambigua, soprattutto per ciò che riguarda la sua collocazione nel contesto dell’articolo dedicato al segreto professionale) della norma comportamentale, lasciando al medico “la valutazione sull’opportunità della deroga “ allorché fosse “in grave pericolo la salute o la vita di terzi”, secondo una discrezionalità apparentemente molto ampia e alla quale in sede di commento non sono state risparmiate critiche, anche se non sono mancate analisi volte a sostenere un’interpretazione restrittiva della deroga introdotta dalla normativa deontologica.

Nella vigente versione, approvata nell’ottobre del 1998, scompare il discutibile riferimento alle figure del minore e dell’incapace e la tensione morale della questione, derivante proprio dalla discrezionalità concessa al medico, è stemperata, fino quasi ad annullarsi, dal riferimento a uno strumento di consultazione obbligatorio – l’autorizzazione del Garante per la protezione dei dati personali di cui alla normativa in tema di privacy – che dovrebbe consentire al professionista di non operare da solo in tutte quelle situazioni dilemmatiche in cui si impone una scelta tra diritti del singolo e interesse della collettività.

È auspicabile, a questo proposito, così come sottolineato in dottrina, che “l’acquietamento burocratico” rappresentato dal ricorso al Garante non si traduca in una “fuga da responsabilità” da parte del medico, ma costituisca invece l’occasione di una sua “effettiva partecipazione ad esigenze singolari e collettive”.

L’articolato corpo di norme delineato dalla Legge n.675/1996, dalle successive integrazioni e dai provvedimenti del Garante, lungi dal mortificare la libertà e la coscienza del professionista, attribuisce infatti un valore decisionale di grande rilievo alla responsabilità del medico, restituendo alla riservatezza il ruolo di carattere distintivo di una vita professionale “che sia rigorosa, sobria, coerente, non prona davanti alle richieste dei media, né troppo ricettiva alla voce di un’opinione pubblica provvisoria”.

L’analisi deontologica si è invero talvolta soffermata, non senza enfasi retorica, su vere e proprie situazioni limite, che sembrano appartenere più al campo delle ipotesi di scuola che a quello del quotidiano operare del medico, tralasciando di richiamare l’attenzione su tutta una serie di comportamenti corrivi e lesivi – ora subdolamente ora palesemente – del diritto alla riservatezza della persona assistita, così largamente divenuti consuetudine da non essere più occasione né di scandalo né di indignazione, e nemmeno di stupore, quasi che si diano per pacificamente scontati il fatto che la norma – sia deontologica sia giuridica – abbia ormai perso il suo carattere imperativo e una sorta di benevola tolleranza (di cui si ravvisa eloquente traccia nel ritardo rispetto ad altri Paesi europei con il quale il nostro Paese si è dotato di un’articolata normativa in tema di trattamento dei dati personali) nei confronti dello scarso rispetto dell’altrui riservatezza, anche da parte di chi di tale scarso rispetto rappresenta il soggetto passivo (come dimostra l’esiguità della casistica giurisprudenziale in materia).

La questione, sollevata recentemente in relazione al trattamento delle tossicodipendenze, riguarda a dire il vero l’intera realtà sanitaria ed è spia di quel divario tra princìpi deontologici e prassi professionale che non investe il solo tema della riservatezza, ma coinvolge l’esercizio professionale nella sua interezza e fa amaramente dubitare dell’effettivo ruolo e della concreta efficacia della normativa deontologica, la cui conoscenza spesso non va oltre la ristretta cerchia degli addetti ai lavori.

Alcuni esempi valgono a esplicitare quanto affermato: nessun medico “si permetterebbe mai di rivelare nomi, fatti, ad altri, senza una giusta causa o senza un preciso obbligo giuridico”, eppure quello stesso medico “può interrompere tranquillamente un colloquio per ricevere una telefonata durante la quale cita apertamente persone, eventi, luoghi, non curandosi della presenza di un interlocutore esterno”; allo stesso modo, in nessuna struttura “si rilascerebbero mai fascicoli o indirizzi, senza una preventiva autorizzazione o una precisa procedura”, eppure in quella stessa struttura talvolta “si riceve il pubblico in locali arredati con scrivanie traboccanti di fascicoli, documenti, nei quali sono facilmente leggibili nomi, indirizzi, recapiti telefonici”; e ancora: “nessun dipendente di un servizio riferirebbe, a chiunque lo domandi, il contenuto degli interventi effettuati nei confronti di un paziente, eppure lo stesso dipendente fornisce informazioni relative agli utenti al telefono, senza controllare preventivamente l’identità dell’interlocutore che li richiede”.

A questo proposito opportunamente – stante la molteplicità e l’eterogeneità delle incombenze amministrativo-burocratiche che affaticano quotidianamente il sanitario – la normativa deontologica (art.10) fa obbligo al medico di “tutelare e garantire la riservatezza dei dati personali e della documentazione in suo possesso riguardante le persone anche se affidata a codici o sistemi informatici”; allo stesso modo (art.11), “nella comunicazione di atti o di documenti relativi a singole persone, anche se destinati a enti o autorità che svolgono attività sanitaria” viene fatto obbligo al medico di “porre in essere ogni precauzione atta a garantire la tutela del segreto professionale”.

L’oggetto della trasmissione deve infatti essere limitato a quanto strettamente necessario e obbligatorio segnalare “con esclusione rigorosa di notizie troppo intime o dannose al paziente e di quelle non aventi interesse sanitario”; del pari, nel caso di denunce obbligatorie aventi per destinatari enti o autorità, alla doverosità della denuncia si affianca per il medico l’obbligo di attenersi alle sole notizie richieste dalla legge e di vigilare affinché la trasmissione del segreto avvenga nella garanzia della tutela della riservatezza della persona assistita e, ove la legge lo prevede, del diritto all’anonimato.

Particolare cautela deve inoltre adoperarsi relativamente alla pubblicazione scientifica – come recita ancora la normativa deontologica – “di dati clinici o di osservazioni relative a singole persone”, avendo cura, quando la correttezza della comunicazione scientifica impone di rivelare dettagli che potrebbero consentire l’identificazione del paziente, di ottenere il consenso informato del medesimo, del quale si dovrà dare atto nella pubblicazione a stampa, così come prescritto dalle raccomandazioni sovranazionali in materia.

Infine, il riferimento alla obbligatorietà del consenso ritorna – e si tratta di una significativa innovazione rispetto alla versione previgente, frutto della mutata sensibilità sociale e della più ampia tutela giuridica in tema di trattamento dei dati personali – anche in quella parte dell’art.11 del codice deontologico che detta le indicazioni comportamentali cui il medico deve attenersi nella redazione di bollettini medici, la cui diffusione deve essere preceduta dalla acquisizione del consenso dell’interessato o dei suoi legali rappresentanti.

In siffatte evenienze, anche in presenza di un valido consenso, il comportamento del sanitario deve essere improntato a prudenza e discrezione e le notizie sulle condizioni cliniche del paziente, ancorché si tratti di persone eminenti o di larga notorietà, deve limitarsi alle informazioni strettamente necessarie; la diffusione ai mezzi di informazione di particolari relativi alla sfera più intima della persona o l’esasperato dettaglio nell’illustrazione dei presìdi diagnostico-terapeutici messi in atto integrano infatti, così come, per converso, l’alterazione dei dati clinici, un agire deontologicamente censurabile, in cui la necessaria deroga al dovere generale di riservatezza che origina dal ruolo pubblico della persona assistita diventa occasione di strumentalizzazioni politiche o di un illecito sfruttamento pubblicitario delle proprie abilità professionali.

Anche in un contesto, quale l’attuale, molto diverso rispetto a quello in cui il principio del segreto professionale è nato e si è sviluppato, l’impegno alla riservatezza deve dunque continuare a connotare il quotidiano operare del medico, in una tensione che la considerazione dell’esistenza e talora della predominanza di altri interessi non deve svilire, ma anzi esaltare, e nella consapevolezza che la garanzia della conciliazione tra interessi confliggenti va ricercata in un’adeguata formazione medico-legale del sanitario, che sola “può preservare dalla pericolosa frattura derivante dai conflitti fra interesse privato e interesse pubblico, tra impegni deontologici e diritti della società “.

Ultimo aggiornamento

23 Febbraio 2024, 12:02