La violazione del segreto professionale

Codice Deontologico e legge sulla privacy

La rivelazione è consentita ed è lecita qualora sussista una giusta causa.

La giusta causa ha sempre modo di configurarsi quando il paziente tragga beneficio dalla rivelazione degli elementi conoscitivi di carattere clinico acquisiti nell’esercizio della attività professionale (esempio: consulto tra medico curante e specialista; perizia redatta a fini risarcitori, ecc.).

Negli altri casi, il diritto alla riservatezza di cui è titolare il paziente può venire meno solo in applicazione di un espresso disposto di legge, di regolamento o della normativa comunitaria.

Perché il reato si configuri è necessario che dalla rivelazione del segreto, avvenuta senza giusta causa, derivi, o possa derivarne per il paziente, un danno ingiusto ovvero contrario al diritto.

La fattispecie deontologica, invece, si concretizza per il fatto ex sé della rivelazione del segreto. Il danno, o nocumento, costituisce unicamente circostanza aggravante, sotto il profilo deontologico.

È da considerare che la formulazione dell’art.9 – lettere b) e c) del Codice Deontologico ed in genere delle altre regole ivi previste in materia, risentono delle disposizioni introdotte ex novo, in tema di privacy, dalla legge n.675 del 31.12.1996; legge che ha rafforzato l’obbligo del segreto professionale nella parte in cui (essa legge) tende a realizzare la tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale.

Alla stregua ditale legge e del Provvedimento (Autorizzazione) del Garante per la Protezione dei dati personali adottato in data 20 settembre 2000, il consenso dell’interessato alla rivelazione (trattamento) dei dati clinici assume ancor più valenza.

In definitiva, il consenso del paziente e sempre necessario, talora unitamente alla Autorizzazione del garante.

Soltanto in determinate fattispecie, è possibile prescindere dal consenso.

Così, ad esempio, nel caso in cui disposizioni di legge specifichino la tipologia dei dati clinici che possono essere trattati, le operazioni eseguibili e le rilevanti finalità di interesse pubblico perseguito.

Così, ancora, quando la rivelazione sia indispensabile per la tutela dell’incolumità fisica o la salute di un terzo o della collettività oppure per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, nonché in sede amministrativa o nelle procedure di arbitrato e di conciliazione nei casi previsti dalle leggi, dei regolamenti, dai contratti collettivi, dalla normativa comunitaria.

I principi sopra delineati possono valere anche per quanto attiene la certificazione di malattia. Invero, in materia di pubblico impiego vigeva per il medico l’obbligo di esternare la diagnosi.

Infatti, l’art.30 del DPR n.686 del 03.05.1957 stabiliva che la domanda per ottenere l’infermità doveva essere corredata da una certificazione medica nella quale doveva essere specificata la diagnosi.

Successivamente, la Convenzione Unica Nazionale per la Medicina Generale ha regolamentato la certificazione di malattia che deve essere rilasciata dal medico di famiglia ai sensi dell’art.2 del D.L. 30.12.1979 n.663, convertito nella Legge n.33 del 29.02.1980, così come sostituito dall’art.15 della Legge n.155 del 23.04.1981.

Nei casi di infermità comportanti incapacità lavorativa, il medico curante redige la certificazione in duplice esemplare, uno soltanto degli esemplari contiene la diagnosi.

Il lavoratore è tenuto a recapitare soltanto all’INPS il certificato contenente la diagnosi mentre al datore di lavoro deve essere trasmessa l’attestazione relativa all’inizio e alla data presunta della malattia.

Comunque, allo stato, è da ritenere che non sussista l’obbligo di esternare la diagnosi nella certificazione di malattia, rilasciata al paziente per giustificare l’assenza dal lavoro a meno che questi non ne faccia espressa richiesta ed anche, nel caso in cui, l’obbligo sia imposto da una specifica disposizione di legge, di regolamento o dell’Accordo Unico Nazionale di lavoro di categoria cui appartiene il dipendente pubblico.

Ultimo aggiornamento

23 Febbraio 2024, 12:03