Definizione e normativa

La cartella clinica, oltre che essenziale documento sanitario, ha estremo interesse medico-legale pur rappresentando a tutt’oggi “una vistosa lacuna della legislazione sanitaria italiana, già di per sé molto povera di precisi riferimenti a questo indispensabile strumento di attuazione e di registrazione dell’assistenza ospedaliera”.

Molte definizioni di cartella clinica sono state sin qui formulate, tutte convergenti nell’intenderla come “il fascicolo nel quale si raccolgono i dati anamnestici e obiettivi riguardanti il paziente ricoverato, quelli giornalieri sul decorso della malattia, i risultati delle ricerche e delle analisi effettuate, quelli delle terapie praticate e infine la diagnosi della malattia che ha condotto il paziente in ospedale”.

L’esigenza di istituzionalizzare un fascicolo nel quale conservare la documentazione sanitaria di ciascun paziente si è certamente accresciuta con le aumentate possibilità di erogazione delle prestazioni sanitarie e, fatti salvi i documenti storici che attestano conati istitutivi sin dagli albori della medicina clinica, solo alla fine dell’800, in Italia, compare una traccia normativa esplicitamente riferita alla documentazione sanitaria.

Così, con un RD del 1891 si disponeva la conservazione dei documenti relativi all’ammissione del ricoverato (provvedimenti, comunicazioni e corrispondenza dell’AG, dell’Autorità amministrativa e della famiglia), nonché alla diagnosi, al riassunto mensile delle sue condizioni e alla dimissione.

Analoghe disposizioni furono dettate da un successivo RD del 1909, col quale si ribadiva che in ogni manicomio debba essere tenuto un fascicolo personale per ciascun ricoverato.

Bisogna tuttavia attendere il 1938 allorché, con il RD 30 settembre, n.1631, all’art.24, si fa carico al Primario; sotto la propria responsabilità, “della regolare tenuta delle cartelle cliniche e dei registri nosologici”.

Si giunge così al DPR 27 marzo 1969 n.128, in cui all’art.7 (Attribuzioni dei primari, aiuti, assistenti) si stabilisce che: “Il primario è responsabile della regolare compilazione delle cartelle cliniche, dei registri nosologici e della loro conservazione, fino alla consegna all’archivio centrale”.

Nello stesso decreto, all’art.2, si rammenta che “la direzione sanitaria deve essere infatti fornita di un archivio clinico, e tra i compiti del direttore sanitario vi è anche quello di vigilare sull’archivio delle cartelle cliniche e di ogni altra certificazione sanitaria riguardante i malati assistiti in ospedale”.

Risulta evidente anche la gerarchizzazione della responsabilità della regolare compilazione delle cartelle cliniche: “attribuzioni riferite ovviamente, e per quanto di competenza, anche all’Aiuto che collabora direttamente con il Primario nell’espletamento dei compiti a lui attribuiti, e lo sostituisce in caso di assenza o impedimento”.

Le attribuzioni dell’Aiuto, rispetto alle norme del DPR 128/1969 non appaiono sostanzialmente modificate dall’art.63 del DPR 761/1979, anche se l’introduzione della dizione corresponsabile concretizza una responsabile plurisoggettività nella regolare compilazione delle cartelle cliniche anche in presenza della figura primariale; infatti l ’Aiuto svolge funzioni autonome nell’area dei servizi affidati all’Aiuto sulla base delle direttive ricevute dal Primario.

E ancora, il DPR 14 marzo 1974 n.225 rammenta che è precipuo compito anche dell’infermiere professionale di conservare “tutta la documentazione clinica sino al momento della consegna agli archivi centrali”, oltre che la possibilità di annotare “sulle schede cliniche gli abituali rilievi di competenza” al pari di quanto, limitatamente alle proprie competenze, può fare l ’infermiere generico.

Esaminato l’iter legislativo e delimitate le figure sanitarie abilitate alla compilazione e alla conservazione della cartella clinica, si deve a questo punto procedere a inquadrare siffatto documento da un punto di vista giuridico.

Una parte dalla dottrina, forse la più cospicua, in accordo con numerose pronunce della Suprema Corte, riconosce alla cartella clinica il possesso di tutti i requisiti propri dell’atto pubblico che, se dotato di certezza legale, implicherebbe per il giudice un vincolo di verità su ciò che il pubblico ufficiale vi ha attestato, sempre che la parte privata, che vi ha interesse, intenti una querela per falso, mirante ad accertare appunto la falsità del documento.

Il definire la cartella clinica come atto pubblico di fede privilegiata comporta una serie di conseguenze sul piano giuridico di non lieve portata: l’applicazione degli artt.479 e 476 cp per il falso ideologico e materiale nella previsione della pena più grave, l’eventuale responsabilità per omissione o rifiuto di atti d ’ufficio ex art.328 cp ovvero per rivelazione di segreto d ’ufficio ex art.326 cp.

La dottrina è tuttavia orientata nel senso di riconoscere alla cartella clinica la natura di atto pubblico “inidoneo a produrre piena certezza legale, non risultando dotato di tutti i requisiti richiesti dall’art.2699 cc” e facente quindi fede fino a prova contraria.

Viene così escluso che la cartella clinica possa qualificarsi come semplice attestazione di verità o di scienza tale da assumere la configurazione di certificazione ai sensi degli artt.477 e 480 cp.

Del tutto recentemente si è sostenuto che sotto il profilo della sua valenza documentativa la cartella clinica possa essere classificata “come tertius genus, collocandosi in una posizione intermedia tra la scrittura privata e l’atto pubblico ed essendo ragionevolmente assimilabile a una certificazione amministrativa…”.

Diversamente occorre argomentare in ordine alla natura giuridica della cartella clinica delle case di cura private che, come ricorda recente dottrina, può avere una duplice natura giuridica: “se è inerente a prestazioni sanitarie per le quali la casa di cura privata è convenzionata con l’unità sanitaria locale, la sua natura giuridica è la stessa della cartella clinica degli stabilimenti pubblici; nel caso invece di case di cura private non convenzionate, la cartella clinica ivi redatta non è altro che un semplice promemoria privato dell’attività diagnostica e terapeutica svolta, e non riveste carattere di atto pubblico e nemmeno di certificazione: perché infatti si possa parlare di certificazione, occorre che il contenuto della cartella clinica attesti fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità; questi elementi non sono ravvisabili in una cartella clinica redatta ex art.35 DPCM 27 giugno 1986, dal medico curante della casa di cura privata con finalità di semplice promemoria interno.

Dal punto di vista dell’inquadramento penalistico pertanto, pur essendo l’attività libero-professionale svolta dal medico all’interno di una casa di cura privata inquadrabile come un servizio di pubblica necessità, la falsità ideologica della cartella clinica ivi redatta, che non ha, come detto, natura giuridica di certificazione, non è punibile ai sensi dell’art.481 cp (falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità)”.

Ultimo aggiornamento

23 Febbraio 2024, 11:54